E se il cambiamento passasse per "contagio sociale" in un modo molto più "epidemico" e addirittura "virale" che lineare? Leandro Herrero offre una tesi dirompente e una metafora decisamente sistemica sulla gestione del cambiamento e il suo libro "Viral Change" è una lettura interessante.
Herrero ci offre uno sguardo su come il cambiamento avviene "per davvero" e delle idee originali su come "facilitarlo". E’ voluta la scelta del verbo “facilitare” anziché il più consueto “gestire” in quanto, se si accetta il presupposto che il cambiamento sia sistemico e virale, allora bisogna rinunciare alle idee tradizionali di “controllo” e di “gestione” a favore di un qualcosa di più organico. Più che declamare le ragioni del cambiamento “top down” a suon di presentazioni in power point, Herrero ci propone un modo per attivarlo e “indirizzarlo” utilizzando vie in gran parte poco visibili e informali. Se questo significa rinunciare al “controllo” nel senso tradizionale del termine, non significa abdicare al ruolo di “regista”. Come Herrero illustra c’è una regia precisa da attivare dietro le quinte di un cambiamento organico e - seppure discreta – questa regia richiede chiarezza ferrea, ad esempio, sulla definizione di un piccolo insieme di comportamenti che saranno ritenuti “non negoziabili” a favore del cambiamento desiderato.
La metodologia è radicale ma poggia su una base solida: lo studio delle reti. Che queste reti siano sociali o di computer, hanno diversi principi organizzativi in comune ed è dall’applicazione di tali principi all’organizzazione che nascono le considerazioni di Herrero sulla “gestione” del cambiamento. Un esempio? Uno dei principi è che le reti non sono affatto democratiche. Così come nelle reti troviamo pochi “punti nodali” molto connessi, nelle organizzazioni troviamo pochi individui con molte relazioni. Anzi, secondo quel che Herrero chiama l’effetto “Matteo” delle reti, proprio quei pochi individui tenderanno ad essere, nel tempo, ancora maggiormente connessi.* Un altro principio tipico delle reti è che, ad un certo punto, i comportamenti di un certo numero di individui cominciano a sincronizzarsi facendo sì che ci si muovano all’unisono. Sono questi “tipping points” (punti di svolta) che, nella realtà, punteggiano il cambiamento creando massa critica, più che le riunioni che, tradizionalmente, vengono utilizzate per declamare la necessità del cambiamento. E’ grazie all’effetto di principi di questo tipo che risulti credibile un’osservazione a prima vista contro-intuitiva: che un piccolo insieme di comportamenti che si diffondono attraverso i “connettori” giusti e tramite le reti informali può rivelarsi molto più potente di una grandissima quantità di comunicazioni indirizzate a tutti, top down, tramite le vie gerarchiche.
Molte delle considerazioni di Herrero sono, del resto, ad un primo sguardo, contro-intuitivi: ragionando “per reti” si pone in controtendenza rispetto a testi “classici” sul cambiamento. Personalmente trovo queste considerazioni da un lato “nuove” e piacevolmente “fresche” e dall’altro cose viste “da sempre” nei casi vissuti di cambiamento o di fallimento dello stesso: sono considerazioni che mi “tornano” rispetto alla realtà.
Non voglio anticipare troppo in questo post, per non intaccare il piacere del percorso che si fa seguendo i ragionamenti di questo autore saggio e irriverente, spagnolo trapiantato in Gran Bretagna in un percorso speculare al mio (scozzese trapiantata in Italia). Basti dire che offre considerazioni nel contempo originali e pragmatiche su come indirizzare e incoraggiare il cambiamento in un mondo che non è lineare come quello richiamato dagli organigrammi classici, facendo ripensare non solo “il cambiamento”, ma anche l’idea stessa di impresa.
* L’effetto “Matteo” viene dal versetto 25, 29 del Vangelo di Matteo che recita “Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Nell’ambito delle scienze sociali l'espressione viene utilizzata per descrivere un effetto di “cumulatività" in base al quale ad esempio gli scienziati che hanno successo nei primi anni della propria carriera, hanno in seguito molta più facilità ad essere pubblicati e citati rispetto a colleghi meno noti.